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“I Papi e la mafia” Quando Paolo VI scrisse contro la mafia

La lettera, resa nota solo nel 1989 dalla rivista “Segno”, è interessante sotto diversi aspetti

di Antonio Tarallo
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La Strage di Ciaculli è una strage avvenuta il 30 giugno 1963 a Ciaculli (località nella zona sud-est di Palermo). Una autovettura Giulietta, imbottita di tritolo, esplose lungo la statale Gibilrossa-Villabate e provocò la morte di sette uomini delle forze dell'ordine: il tenente dei carabinieri Mario Malausa, i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Mario Farbelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci.La prima autobomba usata dalla mafia contro le istituzioni. Fu lì, nella borgata palermitana di Ciaculli, celebrata per i suoi mandarini e feudo della famiglia mafiosa dei Greco, che avvenne il tragico evento. Quello stesso giorno l'Italia viveva, grazie ai vari telegiornali dell’epoca e alla carta stampata, due avvenimenti che presero “il palcoscenico” dell’informazione: la visita, a Roma, del presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, e la “incoronazione” di Papa Paolo VI.   In quegli stessi momenti le agenzie battevano, però, questo testo: "Nuovo gravissimo episodio di banditismo nella Sicilia occidentale. Un tenente, tre sottufficiali e tre militi uccisi in un criminale attentato dinamitardo presso Palermo". Questo, l’antefatto. O meglio, “il fatto” che fece poi scaturire da parte del pontefice Paolo VI una lettera, datata 5 agosto 1963, inviata all’ora Arcivescovo di Palermo, Cardinale Ruffini, al fine di sollecitarlo a prendere pubblica posizione contro la mafia. La lettera, voleva essere un chiaro, un esplicito invito, alla Chiesa di Palermo a prendere posizione pubblicamente, contro tale atto barbarico. Anche, possiamo dirlo, in risposta alla singolare iniziativa del pastore valdese, Pietro Valdo Panascia, che fece affiggere sui muri di Palermo, appunto dopo otto giorni la strage di Ciaculli, un manifesto con cui, in modo condannava – in nome della coscienza cristiana – la criminalità sanguinaria che aveva colpito il popolo palermitano. Chiedeva, il manifesto, “misure per reprimere ogni atto di criminalità che con così preoccupante frequenza insanguina le vie della nostra città" e, rivolgendosi a quanti avevano responsabilità civili e religiose, invocava “opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana”. E chiudeva con una scritta, a caratteri cubitali: “È Dio che ordina di non uccidere”. Un messaggio, potremmo definire, evangelico.

Ma cosa chiedeva Paolo VI (più precisamente,Monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato vaticana), al Cardinale Ruffini, in quella lettera? La lettera, resa nota solo nel 1989  dalla rivista “Segno”, è interessante sotto diversi aspetti. Paolo VI, ancora una volta, nella sua lungimiranza profetica, aveva toccato il cuore del problema. Ed è assai significativo che – in pieno segno del Concilio Vaticano II, potremmo dire – lo faccia, oserei dire, volgendo lo sguardo – senza nessuna velleità di “supremazia”  – verso una Chiesa che certamente, per natura, tanto vicina a quella di Roma, non era.

Nella lettera, sottoponeva al “prudente giudizio” dell'arcivescovo la promozione di “un'azione positiva e sistematica”: la Chiesa non poteva tacere. Fortemente auspicato un programma “d'istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale”, per poter finalmente “dissociare la mentalità della cosiddetta mafia da quella religiosa”. Si dichiarava, inoltre, un triplice scopo: quello di  Il tutto “elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana”.

Ma la lettera, come – in fondo, sappiamo – molti altri atti del pontificato di Papa Montini, non fu compresa. Il cardinale Ruffini mostrò “sorpresa che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa”. E definiva “calunniosa” una supposizione del genere, “messa in giro, specialmente fuori dell’Isola di Sicilia, dai social comunisti”. In poche parole, è come se Montini si fosse fatto influenzare troppo da quei cartelli “protestanti”. La mafia, invece, era un fenomeno, una “struttura” ben organizzata, a cui Paolo VI già guardava con preoccupazione.  E voleva che la Chiesa pronunciasse già allora quello che altri pontefici, dopo di lui, avranno modo di addirittura “gridare”. Verrà poi il tempo dell’anatema di Giovanni Paolo II.



Antonio Tarallo

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